
Nota a Sentenza Cass. pen. 9724/2013 – Annalisa GASPARRE
Maltrattamento per deliberata indifferenza verso elementari bisogni esistenziali del disabile: l’indifferenza è fonte di inutile mortificazione e incide – non meno di gesti di reale violenza – sulla qualità di vita della persona offesa.
Una solenne “condanna” morale e di principio per la badante accusata di aver maltrattato il disabile – affetto da sindrome di Down – a lei affidato e di cui doveva prendersi cura secondo un contratto sottoscritto con il fratello del disabile viene confermata nella sostanza dalla Cassazione che però non può non rilevare l’intervenuta prescrizione.
Il disabile era stato costretto per mesi ad un pessimo stile di vita dalla badante che doveva prendersene cura. Quest’ultima assumeva ingiustificati atteggiamenti autoritari (aveva un atteggiamento molto rude e imperioso e sgridava il ragazzo a voce alta) e disinteresse per le condizioni psico-fisiche dell’affidato che veniva trascurato (non si curava della pulizia dell’appartamento né dell’igiene della persona che portava la stessa camicia per più giorni, non curava l’alimentazione che era scadente e scarsa e causa del palese dimagrimento del giovane) ed esposto a pericoli di vario genere perché la badante si intratteneva a parlare con le amiche sotto casa anziché vigilare sul giovane. Il ragazzo veniva sottoposto a continue umiliazioni da parte della donna e ridotto a “uno stato di palese turbamento e di ingiustificata prostrazione e sofferenza” nonché a un “contegno mortificato e abulico”.
Campanelli d’allarme il pessimo umore e il malessere fisico che erano evidenti nella persona disabile e che richiamarono l’attenzione su quanto probabilmente accadeva tra i due.
I giudici di merito condannavano la donna per maltrattamento ex art. 572 c.p. (Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli), norma che punisce chiunque maltratti una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia , o per l’esercizio di una professione o di un’arte. L’effetto di mal-trattare, come si vedrà, può assumere anche le sfumature dell’omissione, giusta la possibilità di configurare il reato in combinato disposto con l’art. 40 cpv c.p.
La badante, tramite il proprio legale, impugnava la decisione assumendo la mancanza di dolo e giustificando quanto occorso come conseguenza di una “incolpevole inadeguatezza”, cioè “inidoneità ad espletare il peculiare compito di assistere e accudire una persona portatrice dei problemi, anche di comunicazione verbale, connessi alla sindrome di Down”. Secondo la tesi difensiva, vero è che il reato de quo è caratterizzato dal dolo generico, ma l’atteggiamento di prevaricazione dovrebbe “inscriversi in una progettualità criminosa reiterativa dei fatti vessatori in danno della vittima”, mancando la quale verrebbe meno l’elemento della continuità temporale della condotta – l’abitualità – che caratterizza quale condicio sine qua non il reato in parola.
Di contrario avviso i giudici. L’elemento soggettivo in concreto è stato vagliato attentamente dai giudici d’appello, come conferma la Cassazione con la sentenza sotto riportata, individuando gli elementi dimostrativi del dolo nella peculiarità dei comportamenti tenuti dalla badante che si connotavano per essere di “disdicevole svilimento e indifferenza per le fondamentali esigenze di vita del ragazzo, nonché di costante trascuratezza e inutile virulenza autoritaria adottati verso il disabile”, tanto da determinarne “una radicale negativa trasformazione umorale ed emotiva e di stesso benessere fisico e di immagine (igiene, vestiario, ecc.), subito percepita, oltre che dal fratello del giovane, dai suoi conoscenti”.
Altresì i giudici di appello, sottolineando la “notoria grande sensibilità” dei soggetti affetti da sindrome di Down, evidenziavano che “il fatto che gli atti sopraffattori siano compiuti nei confronti di una persona menomata non solo non elide il dolo dell’agente, ma vale ad “accentuare semmai la gravità del fatto”.
Il reato contestato si caratterizza per capacità di integrarsi anche con condotta omissiva, quali “deliberata indifferenza verso elementari bisogni esistenziali e affettivi di una persona disabile”, oltre che con fatti commissivi. Indifferenza, inutile mortificazione, quotidiani atti commissivi quali sgridate e rimproveri, nonché atti omissivi derivanti dalla mancata cura del vestiario e dell’igiene, della scelta del cibo, producono “gratuite umiliazioni e durevoli sofferenze psicologiche alla persona offesa affidata per ragioni di cura e vigilanza all’agente” (cfr.: Cass. Sez. VI, n. 37019/2003; Cass. Sez. VI, n. 8592/10).
Il dolo generico è stato dunque correttamente ravvisato dai giudici di merito, perché la condotta dell’imputata indicava rappresentazione e volontà di “sottoporre il soggetto passivo ad una serie di sofferenze psico-fisiche in forma abituale e tali da produrre la sistematica compressione della sua particolare personalità” (cfr. Cass. Sez. VI, n. 39927/2005).
Necessaria una speciale competenza per comprendere i bisogni di persona affetta da sindrome di Down? Secondo la Cassazione la risposta è negativa: le esigenze vitali e i bisogni di socialità e affettività sono da “considerarsi acquisiti al patrimonio di conoscenza collettivo” e non richiedono “alcuna speciale perizia o preparazione tecnica o medica” che trascenda “il buon senso, una comune sensibilità e un doveroso rispetto per la diversità di una persona disabile (per limiti cognitivi e difficoltà motorie) quale portatore di sindrome di Down” che si rendono, peraltro, doverosi e ineludibili se connessi a un rapporto professionale di affidamento e cura della persona disabile, come nel caso concreto.