
Di Quirino Mescia e Vittorio Piccirillo – Avvocati.
L’ordinanza in commento (25/13, 3 agosto 2015, CdA Campobasso) declaratoria dell’inammissibilità ai sensi dell’art. 348 bis e ter c.p.c. di un appello proposto dalla difesa erariale, si segnala per il rigore logico con il quale, premessa la disamina delle censure prospettate dall’appellante, valutatane la non fondatezza alla luce degli orientamenti giurisprudenziali, ne stigmatizza il difetto di fondo delle argomentazioni, reputate mere allegazioni prive del minimo riscontro probatorio.
Il logico corollario che ne consegue è la pronuncia di inammissibilità del gravame e, in termini ancor più pregnanti, la corretta applicazione del principio di cui all’art. 2697 c.c., nella sua prospettiva dinamica e processuale di “sanzione” in caso di non corretto assolvimento del relativo onere.
L’impianto argomentativo del gravame prospettava tre ordini di censure. In primo luogo veniva censurata la sentenza del primo giudice laddove, nel valutare la decorrenza del termine prescrizionale in ambito di azione risarcitoria da emotrasfusione, individuava il dies a quo nella data di proposizione della domanda amministrativa ex L. 210/92, quale momento nel quale il danneggiato ha avuto una sufficiente percezione della malattia e comunque è in grado di ancorare l’accertamento a parametri oggettivi, al fine di evitare che possa valere il solo dato – alquanto variabile nel tempo – della mera conoscibilità soggettiva del danneggiato.
Trattasi di approdo perfettamente coerente con la arcinota Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 579: “Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre, a norma dell’art. 2935 c.c., e art. 2947 c.c., comma 1, non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione che produce il danno altrui o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, ma dal momento in cui viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l’ordinaria oggettiva diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche”, cosi come ulteriormente specificato da Cassazione n. 581 e 583 del 2008 delle S.U., sez. III del 18.12.2012 n. 23321 e sez. VI, 8 maggio 2013 n. 10926, ovvero “dal momento della proposizione della domanda amministrativa la vittima del contagio deve comunque aver avuto una sufficiente percezione sia della malattia, sia del tipo di malattia che delle possibili conseguenze dannose, percezione la cui esattezza viene solo confermata con la certificazione emessa dalle commissioni mediche “.
La censura prospettata dalla difesa erariale, invece, muoveva dal primo riscontro certificato dell’infezione, costruendo il sillogismo prima certificazione- momento certo ed oggettivamente percepibile e riconoscibile del danno ingiusto, usando l’ordinaria diligenza.
La Corte di Appello, ripercorrendo gli orientamenti di legittimità e sposando la corretta interpretazione del primo giudice, conclude che la prima certificazione ha certa valenza di prima manifestazione dell’epatopatia lungo latente, ma, in assenza di altri elementi, non anche quella di oggettiva e certa percepibilità, usando l’ordinaria diligenza, del danno ingiusto.
La seconda doglianza deduceva l’erronea ascrizione di responsabilità al Ministero della Salute in quanto l’epoca della trasfusione in esame sarebbe successiva all’adozione della normativa di garanzia da parte del dicastero, il quale, quindi non avrebbe alcuna responsabilità sull’occorso.
La corte, confermando l’impianto del primo grado, correttamente conferma che il profilo di responsabilità imputato, di natura omissiva, non va correlato alla mancata tempestiva adozione della normativa, quanto piuttosto al profilo omissivo della culpa in vigilando, avendo il Ministero, nell’ambito del suo dovere istituzionale cosi come normativamente regolato, omesso di verificare la corretta ed effettiva applicazione della suddetta normativa.
Infine, l’ultima doglianza prospettata attiene alla mancata applicazione della compensatio lucri cum damno, in riferimento alla mancata decurtazione dalla posta risarcitoria, di quanto già percepito a titolo di indennizzo ex L. 210/92.
Su tale profilo vale la pena soffermarsi in maniera più specifica.
Il Tribunale rigettava l’eccezione di scomputo rilevando l’inerzia probatoria del Ministero eccepente.
Secondo la difesa erariale, il rigetto integrale della riferita eccezione rappresenterebbe “un’inammissibile inversione dell’onere della prova” oltre che violazione del principio di vicinanza della prova.
L’orientamento di legittimità (Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 584; Cass. 23 maggio 2011, n. 11302; Cass., 17 gennaio 2012, n. 532) ammette a compensazione l’indennizzo eventualmente già corrisposto, così imponendo quindi l’allegazione e la prova, di cui è normalmente onerato chi adduce un fatto – parzialmente – estintivo (in materia di compensatio lucri cum damno v.: Cass. 9 maggio 1966, n. 1189; Cass. 8 gennaio 2003, n. 77; Cass., ord. 6 giugno 2012, n. 9132), dell’effettiva corresponsione dell’indennizzo stesso, oltre che della sua esatta entità.
La parte che agisce per il risarcimento ha diritto ad un titolo esecutivo per un credito certo e liquido ed è compito del giudice pronunziare la condanna che tenga conto di tutti gli elementi che le parti gli hanno dato o avrebbero avuto l’onere di dargli, senza che possa sopperire una cd. etero integrazione del titolo stesso in un momento successivo; al riguardo, il principio di cui in Cass. Sez. Un. 2 luglio 2012, n. 11066, si riferisce alla possibilità di colmare lacune nella formulazione del titolo derivanti dalla mancata riproduzione in esso delle soluzioni alle questioni già legittimamente affrontate nel corso del giudizio, ma non anche a quella di introdurre successivamente al titolo, superando le barriere preclusive processuali consacrate nel giudicato, l’allegazione e la prova di fatti non allegati e tanto meno provati dalla parte onerata.
D’altra parte, l’astratta spettanza di una somma suscettibile di essere compresa tra un limite minimo e massimo a seconda della patologia riconosciuta non equivale all’effettiva sua corresponsione e non fornisce elementi per individuare l’esatto ammontare del credito per indennizzo: sicchè il carattere predeterminato della tabella di quest’ultimo non consente di individuare, in mancanza di dati specifici di cui è onerato colui che eccepisce il lucrum, il preciso importo della somma da portare in decurtazione del risarcimento.
Nel caso de quo il Ministero si è limitato ad allegare l’avvenuta compensazione del credito con l’indennizzo percepito ai sensi della Legge 210/92.
Era quindi onere del Ministero, che opponeva la – pure pienamente ammissibile – compensatio, fornire prova dell’effettiva corresponsione dell’indennizzo e della sua entità.
Invece, disattendendo i principi in materia di onere probatorio, alla mera allegazione della compensazione il Ministero ha inteso, poi, sgravarsi del relativo onere chiedendo al Tribunale, e quindi con una etero integrazione delle proprie lacune probatorie, di acquisire i dovuti riscontri istruttori.
Il Tribunale, secondo la Corte di Appello, ha correttamente applicato i principi in materia di onere probatorio.
Infatti, se avesse assecondato le richieste dell’appellante, intese a demandare al Tribunale la ricerca di elementi intesi a quantificare gli emolumenti percepiti, avrebbe sortito l’effetto di traslare in capo a quest’ultimo un incombente, diretta conseguenza dell’eccezione di compensazione formulata dal Ministero, che contrasta con il canone di cui all’art. 2697 c.c.
A riguardo, occorre ulteriormente precisare che, alla luce di quanto statuito da Cass. Sez. VI – 3, Ord., 28.02.2014, n. 4785 “l’astratta spettanza di una somma suscettibile di essere compresa tra un limite minimo e massimo a seconda della patologia riconosciuta non equivale all’effettiva sua corresponsione e non fornisce elementi per individuare l’esatto ammontare del credito per indennizzo: sicché il carattere predeterminato della tabella di quest’ultimo non consente di individuare, in mancanza di dati specifici di cui è onerato colui che eccepisce il lucrum, il preciso importo della somma da portare in decurtazione del risarcimento”
Da tale premessa sostanziale, la ricaduta in termini di onere probatorio non può che essere coerente: “è quindi onere del ministero, (che opponeva la – pure pienamente ammissibile – compensatio) fornire prova dell’effettiva corresponsione dell’indennizzo e della sua entità: in mancanza di tanto, in modo corretto la corte territoriale ha escluso l’invocata decurtazione del risarcimento.” – Cass. Cit.
Il sovvertimento dell’onere probatorio propugnato dalla difesa erariale, che reitera richieste istruttorie a mezzo CTU, sortirebbe l’ulteriore effetto di vulnus al principio, di marca giurisprudenziale, di vicinanza della prova, pure dallo stesso appellante invocato.
Come è noto, il principio di elaborazione giurisprudenziale trova applicazione laddove la prova non possa esser data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare viene invocato, come nel caso di perdita, mancanza o insufficienza di dati in un documento, quale, ad esempio, la cartella clinica.
In virtù di tale criterio tecnico l’onere probatorio, in deroga alla norma di cui all’art. 2697 c.c., viene posto a carico della parte prossima alla fonte di prova.
Il fondamento del principio è nell’esplicitazione dei doveri di correttezza e buona fede nell’adempimento delle obbligazioni nonché, sotto il profilo processuale, è espressione del principio costituzionale del “giusto processo” e dei doveri di lealtà e probità di cui all’art. 88 c.p.c., nonché del principio generale stabilito dal 2° co. dell’art. 116 c.p.c.
Le sentenze della Cass., S.U., 11.1.2008, nn. 577 e 582 , applicano la regola della vicinanza alla prova in un caso di responsabilità contrattuale (sentenza n. 577/2008) e in un caso di responsabilità extracontrattuale (sentenza n. 582/2008).
Nel caso de quo, invertendo l’onere probatorio, in assenza del presupposto giustificativo cosi come enucleato dalla giurisprudenza richiamata, si sarebbe imposto di fornire prova pur in assenza di quel comportamento ascrivibile alla stessa appellata contro la quale il fatto da provare viene invocato.
Ne consegue che se il fondamento del principio di vicinanza della prova risiede nella correttezza e buona fede e nel principio del giusto processo, la sua non corretta applicazione, se invocabile, si traduce nella violazione dei principi enunciati.
Sul punto la Corte oblitera l’orientamento riferito, deducendo altresi che spetta al Ministero eccepente l’onere di allegare e provare effettiva corresponsione ed entità dell’indennizzo, essendo inammissibile invocare forme di surrogazione o etero integrazione del suddetto onere probatorio come nel caso di specie, una CTU.