
di Davide Gatto – Dottore in Giurisprudenza –
Dopo anni di dibattiti su quali funzioni svolgesse la responsabilità civile nell’ordinamento italiano (compensativa, preventiva-deterrente o punitiva-sanzionatoria) e una prevalente giurisprudenza di legittimità ferma nell’attribuirle la sola funzione riparatoria-compensativa, le Sezioni Unite della Cassazione, con la innovativa ed evoluta sentenza n.16601/2017, hanno effettuato una vera e propria ‘svolta’ storica, riconoscendo finalmente la natura polifunzionale della responsabilità civile. Dirompenti risuonano le parole delle Corte che evidenzia come “accanto alla preponderante e primaria funzione compensativo riparatoria dell’istituto (che immancabilmente lambisce la deterrenza) è emersa una natura polinzionale…, che si proietta verso più aree, tra cui sicuramente principali sono quella preventiva (o deterrente o dissuasiva) e quella sanzionatoria-punitivia”.[1]
L’occasione che ha consentito la rivoluzione interpretativa circa la natura della responsabilità civile ha avuto origine dall’ordinanza di rimessione, n. 9978/ 2016, della Prima Sezione Civile della Cassazione, che poneva alle Sezioni Unite la questione di particolare importanza: la delibabilità di sentenze straniere comminatorie di danni punitivi nell’ordinamento italiano.
L’istituto dei punitive damages, originario degli ordinamenti di common law, che nasce con lo scopo di rendere giustizia, consiste nella condanna del danneggiante, ossia offensore, a un risarcimento ulteriore rispetto a quello riconosciuto a titolo compensativo (compensatory damages) in favore del danneggiato, qualora venga provato che il danneggiante abbia commesso un fatto particolarmente riprovevole posto in essere con una condotta caratterizzata da malice (dolo – mala fede) o gross negligence (colpa grave). Detto istituto, come è noto, non ha la funzione di ripristinare lo status quo della vittima, bensì di punire l’autore del danno al fine di dissuaderlo dal ripetere le medesime condotte in futuro e prevenire che altri potenziali danneggianti possano mettere in atto condotte similmente dannose. Può, quindi, osservarsi come gran parte del valore del fascinoso istituto risieda proprio nella sua funzione deterrente e in quella pedagogica, ove la condanna esemplare funge da monito all’intera collettività (per questo originariamente chiamati exemplary damages), oltre che nella sua efficiente allocazione del costo dell’incidente in capo al danneggiante.
Tuttavia, nonostante tale istituto abbia suscitato l’interesse di una parte della dottrina italiana che a partire dagli anni ’80 con entusiasmo ne riconosceva l’importanza, prima della sentenza in commento non fu affatto accolto con favore dalla giurisprudenza prevalente; anzi, la stessa guardava il travolgente fenomeno espansivo dei danni punitivi con timore. Infatti, la Cassazione, che ha avuto modo di pronunciarsi sulla delibabilità dei danni punitivi per la prima volta appena dieci anni fa, con la sentenza n. 1183/2007[2], in linea con la pronuncia della Corte territoriale[3], negò la delibazione della sentenza straniera comminatoria di danni punitivi per contrarietà all’ordine pubblico (ex art. 64 lett. g) l. 218/95), dichiarando l’estraneità dell’idea di punizione-sanzione al sistema di responsabilità civile vigente nell’ordinamento italiano, attribuendo a quest’ultima finalità esclusivamente compensative. Ciò che venne considerato in contrasto con l’ordine pubblico, dunque, fu proprio la natura punitiva-deterrente dei punitive damages, indipendentemente dalla valutazione di proporzionalità del quantum risarcito. Successivamente, nel 2012 con la sentenza n. 1781, la Suprema Corte ribadì la contrarietà dei danni punitivi con l’ordine pubblico italiano[4] richiamando quanto affermato nel 2007 circa l’estraneità nell’ordinamento italiano della funzione punitiva-sanzionatoria della responsabilità civile, nonché l’indifferenza della condotta del danneggiante nella determinazione del quantum; frustrando il ragionamento evolutivo che in quell’occasione fece la Corte territoriale. Infatti, la Corte d’Appello di Torino, non ravvisando ragioni ostative, dichiarò la delibabilità della sentenza straniera comminatoria di un risarcimento ultra-compensativo, ritenendo che la somma liquidata non risultasse eccessiva in relazione alla gravità oggettiva del fatto rappresentato dall’infortunio sul lavoro, particolarmente grave, occorso alla vittima, all’epoca trentasettenne; difatti, date le gravi disabilità riportate dal giovane lavoratore, il maggior risarcimento riconosciuto dalla Corte statunitense ben poteva esser giustificato[5], ma la Cassazione, ferma sul monolitico orientamento della monifunzionalità del responsabilità civile, affermò ancora un volta la contrarietà con l’ordine pubblico dell’istituito di origine anglosassone.
Dunque, la sentenza n. 16601 del 5 luglio 2017 rappresenta uno storico cambiamento di rotta della giurisprudenza italiana in tema di punitive damages. Tale pronuncia descrive l’evoluzione dell’interpretazione del principio di ordine pubblico e dell’istituto aquiliano, evoluzione che segna il condivisibile allentamento del livello di guardia tradizionalmente opposto dall’ordinamento nazionale all’ingresso di istituti giuridici e valori estranei, purché compatibili con i principi fondamentali desumibili, in primo luogo, dalla Costituzione, ma anche dai Trattati fondativi e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e, indirettamente, dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo[6]; la Suprema Corte, afferma che “non è quindi ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi. Il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve però corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell’ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità delle stessa ed i limiti quantitivi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell’atto straniero e alla loro compatibilità con l’ordine pubblico”. Già nel 2015, con la sentenza n. 7613, la Corte di Cassazione rilevò “l’evoluzione della tecnica di tutela della responsabilità civile verso una funzione anche sanzionatoria”, evidenziando, nonostante le differenze, i “tratti comuni” tra i punitive damages e le astraintes, che in quell’occasione furono considerate compatibili con l’ordine pubblico; ponendo in rilievo anche che una parte della dottrina osservava come la funzione afflittiva del risarcimento del danno non patrimoniale non era estranea ai lavori preparatori del codice civile, nei casi di particolare intensità dell’offesa all’ordine giuridico.
In merito al danno non patrimoniale pare opportuno porre l’accento su una recente pronuncia della Corte di Cassazione[7], la n. 7766 del 2016, la quale, risulta interessante per quel che concerne l’evoluzione dei criteri risarcitori per la liquidazione del danno morale, soprattutto in relazione alla funzione sanzionatoria che quest’ultimo può svolgere nel nostro ordinamento. La Corte in questa pronuncia, pur richiamando i principi di unitarietà e onnicomprensività statuiti dalle Sezioni Unite del 2008, affermò l’autonoma rilevanza delle singole voci di danno; in particolare statuì che “il dolore interiore” (il danno morale) e la significativa alterazione della vita quotidiana (il danno esistenziale) sono “danni diversi e perciò sono entrambi autonomamente risarcibili”, prendendo in considerazione che “l’accertamento e la liquidazione del danno non patrimoniale costituisco questioni concrete e non astratte” e di conseguenza “se esse non richiedono il ricorso ad astratte tassonomie classificatorie, non possono per altro verso non tener conto della reale fenomenologia del danno alla persona, negando la quale il giudice rischia di incorrere in un errore ancor più grave, e cioè quello di sostituire una realtà meta-giuridica ad una realtà fenomenica”[8]. Ne consegue, quindi, che, ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, è possibile procedere a modalità alternative rispetto a quella della semplice personalizzazione del danno biologico. Difatti, il danno morale e quello esistenziale, secondo quanto statuito dalla Corte, rappresentano voci distinte e autonomamente risarcibili e, soprattutto, che la sofferenza interiore (danno morale) può essere risarcita anche al di fuori dei criteri tabellari, in quanto “tali conseguenze non sono mai catalogabili secondo universali automatismi, poiché non esiste una tabella universale della sofferenza”; ciò al fine di garantirne l’adeguata valutazione – tenendo conto delle circostanze del caso, ossia della fenomenologia del danno alla persona – di tutti i pregiudizi subiti dalla vittima[9]. Pertanto, nella valutazione della sofferenza interiore il giudice “non può mai essere il giudice degli automatismi matematici ovvero delle super-categorie giuridiche quando la dimensione del giuridico finisce per tradire apertamente la fenomenologia della sofferenza”; dunque il giudice nella valutazione della sofferenza interiore è “libero di quantificarla nell’an e nel quantum secondo equo apprezzamento”[10] e per quanto attiene alla prova del danno, in ossequio alle sentenze delle Sezioni Unite del 2008, tale prova può essere fornita senza limiti, e dunque avvalendosi anche delle presunzioni e del notorio, se del caso, in via esclusiva. Altro esempio giurisprudenziale interessante in tema di danno non patrimoniale è la sentenza del Tribunale di Torino[11]del 3 giugno 2015, frutto anche delle intuizioni dei difensori degli eredi della vittima che hanno valorizzato con attenzione le circostanze del caso per la valutazione del danno subito dalla vittima, richiedendo di conseguenza l’applicazione di un moltiplicatore. In questo caso il giudice di merito, in occasione di una richiesta attorea di un risarcimento ultra-compensativo basato sulla gravità della condotta del danneggiante, ha avuto l’occasione di analizzare la prospettiva secondo cui la gravita della condotta contribuisce a incrementare il quantum risarcitorio del danno non patrimoniale. Il giudice nel decidere il caso – e nell’interrogarsi sulla natura del danno non patrimoniale risarcibile per morte di un congiunto – prende le mosse dai principi di unitarietà e onnicomprensività statuiti, dalle sentenze gemelle e quelle di san martino, richiamando anche il principio di integrale riparazione del danno; osservando tuttavia che diverse pronunce hanno ribadito la distinzione tra le voci di danno esistenziale, morale e biologico, e, seppur evitando duplicazioni risarcitorie, l’imprescindibilità della loro valutazione al fine di non lasciare vuoti risarcitori[12]. Così, con tale argomentazione sottolinea che il sistema della responsabilità civile per danno non patrimoniale non può esaurirsi in una visione biocentrica del risarcimento; infatti viene specificato il possibile “incremento dell’importo tabellare (eventualmente anche altre i limiti massimi) in presenza di situazioni di fatto che si discostano in modo apprezzabile da quelle ordinarie tenendo conto di tutte le peculiarità del caso”. Inoltre il giudice, ribadendo la centralità che assume la posizione della vittima nella liquidazione del danno e “dunque la finalità riparatoria o compensativa della perdita subita che in ogni caso guarda a chi ha patito la lesione dei propri diritti inviolabili e non all’autore dell’illecito o al disvalore della condotta”, afferma che “la gravita del fatto non sia affatto priva di rilievo nella valutazione equitativa del giudice” [13]. Difatti il Tribunale, considerando che non possono non aver aggravato lo strazio dei familiari del giovane studente le circostanze della straordinarietà della tragedia, la quale è “avvenuta all’interno di un istituto scolastico e dunque in un luogo nel quale ciascuno ripone particolare affidamento” e altrimenti evitabile per iniziativa di “chi ricopriva una posizione di garanzia e un ruolo istituzionale”, ha ritenuto – richiamando l’affermazione della Cassazione del 20 novembre 2012, n. 20292, secondo cui “la relativa quantificazione debba essere tanto più elevata quanto più grave risulti il vulnus alla situazione soggettiva tutelata dalla Costituzione inferto al danneggiato, e tanto più articolata quanto più esso abbia comportato un grave o gravissimo, lungo o irredimibile sconvolgimento della qualità e della quotidianità della vita stessa” – giustificato un incremento dei massimi tabellari nella misura del 50%. Dunque, se da un lato emerge che l’aumento del risarcimento riconosciuto è riferibile alla gravità del fatto lesivo intesa in senso oggettivo, ossia l’aggravio di sofferenza determinata all’eccezionalità del caso, non potendosi discostare troppo da quello che, all’epoca della pronuncia, era l’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità; dall’altro, come è stato osservato in dottrina[14], non si può negare che nella determinazione del quantum abbia assunto rilevanza anche, quale circostanza del caso, la condotta del danneggiante.
È evidente che tali pronunce sono frutto dell’esigenza di tutela effettiva che una monofunzionalità, meramente riparatoria, della responsabilità civile non poteva offrire. Difatti, non bisogna dimenticare che proprio le esigenze di tutela sin dagli anni ’70 hanno portato la giurisprudenza a riconoscere a un progressivo ampliamento applicativo dell’istituto della responsabilità civile, al fine di offrire tutela agli svariati diritti involabili della persona e agli interessi giuridicamente rilevanti e meritevoli di tutela, e hanno indotto il legislatore a introdurre nel sistema della responsabilità civile appositi istituti aventi carattere punitivo-sanzionatorio[15] con il precipuo scopo di dissuadere i potenziali danneggianti dal porre in essere condotte dannose; quest’ultimi al fine di raggiungere tale scopo prendono in considerazione quell’elemento da sempre ritenuto irrilevante ai fini della determinazione del quantum, ossia la gravità della condotta. A tal proposito, le Sezioni Unite, a dimostrazione della polifunzionalità della responsabilità civile, si soffermano a elencare gli indici normativi che nel corso degli anni hanno introdotto rimedi risarcitori con funzione sostanzialmente sanzionatoria e la giurisprudenza costituzionale (Corte Cost. n. 303 del 2011; Corte Cost. 152/2016). Affermando, di seguito, che “vi è dunque un riscontro a livello costituzionale della cittadinanza di una concezione polifunzionale della responsabilità civile, la quale risponde soprattutto a un’esigenza di effettività (crf. Corte Cost. 238/2014 e Cass. n. 21255/13) della tutela che in molti casi, della cui analisi la dottrina si è fatta carico, resterebbe sacrificata nell’angusta monofunzionalità”.
Dunque, se fino al primo decennio degli anni duemila le questioni di primaria importanza in tema di responsabilità civile erano quelle di dare una risposta circa l’ambito applicativo, oggi ciò che preme è che vi sia un’adeguata risposta sanzionatoria agli illeciti intenzionali. Come è stato osservato in dottrina “la morte accidentale dell’operaio in un incidente sul lavoro non può essere equiparata a quella dell’operaio che muore per il consapevole insufficiente investimento in misure di sicurezza e prevenzione del danno, che a costo di risparmiare sulla messa in sicurezza degli impianti accetta il rischio di cagionare la morte dei suoi dipendenti”[16]; ciò allo scopo da un lato di garantire un’uguaglianza sostanziale, e non solo formale, alle vittime e dall’altro di dissuadere i potenziali danneggianti dal porre in essere condotte simili, facendo svolgere alla responsabilità civile una funzione preventiva-deterrente, o meglio quella organizzativa-regolativa che maggiormente esprime la polifunzionalità anche dal punto di vista dell’analisi economica dell’istituto[17]. Pertanto, come evidenziato da parte della dottrina, “occorre creare un rapporto di proporzione del danno effettivamente patito dalla vittima con quello che risulterebbe dal risarcimento dei danni puramente compensativi, considerato anche lo status economico e l’elemento soggettivo dell’offensore”[18].
Con la pronuncia della Suprema Corte a Sezioni Unite, non solo è stata finalmente riconosciuta la natura polifunzionale della responsabilità civile e la cittadinanza nell’ordinamento italiano dei danni punitivi, ma è stato anche implicitamente e definitivamente superato il dogma dell’integrale riparazione come limiti massimo del risarcimento. Sul punto è appena il caso di ricordare l’orientamento di quella parte della dottrina che per anni ha evidenziato come il sistema della responsabilità civile non svolge la sola funzione compensatoria, bensì risponde a esigenze di giustizia talvolta retributiva, talaltra distributiva[19], oltre che ad una politica coerente all’attuale assetto economico e sociale – sostenendo che, nelle ipotesi previste, il meccanismo da adottare, sia al fine di una effettiva integralità del risarcimento sia nel caso di introduzione di sistemi diversi da quello puramente compensativo, è quello del combinato disposto degli artt. 1223 c.c., 1226 c.c. e 2056 c.c.; i quali, oltre a prevedere il contenuto minimo del risarcimento, attribuiscono al giudice il potere di valutazione equitativa in relazione alle circostanze del caso; permettendo, di fatto, una valutazione della condotta antigiuridica, del grado di colpevolezza e dell’arricchimento che il danneggiante ha ottenuto con la sua condotta illecita, oltre che del danno subito dalla vittima[20]. Tale criterio di valutazione, inoltre, permetterebbe un’adeguata personalizzazione del risarcimento tenendo conto della condotta del danneggiate, a differenza di un rigido sistema tabellare incentrato sull’idea di una funzione meramente riparatoria della responsabilità civile che presenta limiti censurati anche dalla Corte Costituzionale[21]; infatti, seppur adottato con lo scopo di garantire la massima parità di trattamento a casi simili secondo equità[22], non risulta adeguato in quei casi in cui la differenza è determinata da una condotta intenzionale particolarmente significativa[23]. Con la conseguenza che in presenza di situazioni di eccezionalità gravità – in cui non si può far a meno di aumentare il risarcimento in base alla condotta particolarmente riprovevole – i giudici, come si è ricordato supra, con grandi argomentazione sull’integralità del risarcimento, sulla funzione riparatoria e sull’onnicomprensività, restando fedeli al meccanismo delle tabelle per non discostarsi dall’orientamento all’epoca prevalente, hanno applicato un “moltiplicatore” ai valori delle stesse concedendo risarcimenti ultra-tabellari[24]; trattandosi in realtà di veri e propri risarcimenti aggravati dalla condotta. Dopotutto come è stato giustamente osservato che “i principi giuridici devono del resto servire obiettivi di giustizia e non l’inverso”[25].
Ovviamente tale reinterpretazione dell’istituto della responsabilità civile, come ha precisato la stessa Corte, non deve essere intesa come la possibilità per il giudice di ammettere indiscriminatamente risarcimenti punitivi; infatti, quest’ultimo, secondo l’orientamento della dottrina appena citata, è chiamato dal legislatore a valutare le circostanze del caso e laddove si presenti una particolare gravità della condotta a valutare ai fini risarcitori anche quest’ultima quale circostanza del caso. Le Sezioni unite in merito hanno richiamato gli artt. 23-24 e 25 della Costituzione, affermano che “ogni imposizione di prestazione personale esige una intermediazione legislativa, in forza del principio di cui all’art. 23 Cost. ( correlato agli artt. 24 e 25), che pone una riserva di legge quanto a nuove prestazioni patrimoniali e preclude un incontrollato soggettivismo giudiziario”; ciò ben può essere letto come un invito al giudice di merito che effettua una valutazione equitativa a motivare adeguatamente l’incremento risarcitorio ultra-compensativo e al rispetto del principio di proporzionalità del risarcimento, che anche in un’ottica di funzione sanzionatoria punitiva del risarcimento resta principio cardine della materia della responsabilità civile. “È per tali che la liquidazione equitativa, di norma ritenuta insindacabile in sede di legittimità, finisce per divenirlo laddove di essa non riesca a darsi una giustificazione razionale a posteriore e, quindi, ai sensi dell’art. 360, comma 1°, n.5, c.p.c. in combinato disposto con l’art.1226 c.c. laddove sia in concreto ravvisabile l’omissione, la contraddittorietà o l’insufficienza della motivazione”[26]. Tuttavia, pare meno condivisibile l’idea espressa dalla Suprema Corte secondo cui “deve esserci una precisa predeterminazione della fattispecie (tipicità) e puntualizzazione dei limiti quantitativi delle condanne irrogabili (prevedibilità)”; infatti è proprio duttilità delle tecniche di tutela civilistica rispetto a quella penale e le meno accentuate esigenze di tipicità e tassatività a rendere efficace la tutela civile, ove la tassatività del diritto penale, a volte, è da ‘ostacolo’ a un’effettiva realizzazione della finalità dissuasiva degli illeciti[27].
Pertanto, un’eccessiva prevedibilità dei risarcimenti porterebbe a una neutralizzazione della fondamentale funzione deterrente-preventiva della responsabilità civile. Dopotutto il giurista romano Gellio[28] raccontava, che la scarsa efficacia dissuasiva del sistema delle XII Tavole – che portò all’introduzione dell’istituto aquiliano – consentiva a un tale di andare in giro per la città a schiaffeggiare chicchessia pronto a pagare il costo irrisorio della sua condotta illecita; pertanto ne risulta che un sistema che non sanzione adeguatamente gli illeciti intenzionali – quindi anche nell’ipotesi in cui non vi sia un’effettiva integrale riparazione – è da considerarsi inefficace nella sua capacità dissuasione, poiché trasforma la sanzione (il risarcimento) del comportamento illecito in una mera tariffa per porlo in essere; oltre che anacronistico in una società in cui la dignità della persona è al primo posto e in cui il volume di affari di certi illeciti consente al potenziale danneggiante di considerare ex ante come vantaggioso il costo di un risarcimento-tariffa.
Ammettendo la funzione sanzionatoria-deterrente della responsabilità civile, deve ritenersi, di conseguenza, superato anche il principio di equivalenza del dolo alla colpa, attribuito dalla tradizione, alla responsabilità ex art. 2043 c.c.: “qualunque fatto doloso o colposo (…) obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”[29] e nell’assenza di un richiamo in capo all’art. 2056 c.c. dell’art. 1225 c.c.; quest’ultimo, infatti, in materia di responsabilità contrattuale dispone che, in presenza di dolo, il risarcimento è dovuto per il danno intero, non operando la limitazione al danno prevedibile. Dunque, l’equivalenza del dolo alla colpa oggigiorno[30], risulta smentita non solo da una molteplicità di istituti[31] , molti dei quali richiamate anche dalla sentenza in commento, di senso opposto a tale principio facendo divenire la gravità della colpa funzione dell’entità del risarcimento e dalla presenza all’interno del codice civile di disposizioni che aggravano la posizione del soggetto che abbia agito con dolo[32] – in particolare: l’art. 1227 c.c., il quale prevede che, in caso concorso della vittima alla determinazione del danno, “il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze derivate”; anche l’art. 2055 c.c. prevede una soluzione analoga, a proposito della distribuzione dell’onere risarcitorio in capo ai coautori del danno, ove la gravità della rispettiva colpa è elemento in forza del quale viene ripartito il carico risarcitorio tra coloro che hanno cagionato il danno; l’art. 1900 c.c., in materia di assicurazione, stabilisce che “l’assicuratore non è obbligato per i sinistri cagionati da dolo o colpa grave del contraente, salvo patto contrario per i casi di colpa grave”; mentre l’art. 1917 c.c., nell’affrontare gli obblighi dell’assicuratore, solleva quest’ultimo dall’obbligo di coprire l’assicurato per i danni derivanti da fatti dolosi di quest’ultimo (ponendosi in questo caso, oggi, il problema per le compagnie di far sottoscrive eventualmente una specifica polizza per i risarcimenti punitivi, cosi come è avvenuto per i casi di illeciti dolosi in materia di responsabilità medica) – ma anche dal riconoscimento, ad opera della Cassazione a Sezioni Unite, della polifunzionalità della responsabilità civile alla quale “non è assegnato il solo compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria della responsabilità civile”, che necessariamente nella sua funzione sanzionatoria-deterrente richiede una valutazione della condotta, oltre che del profitto che il danneggiante ha tratto dalla condotta illecita, ai fini del risarcimento.
In conclusione si osserva che, seppur il percorso per arrivare a un riconoscimento della funzione sanzionatoria-deterrente della responsabilità civile non sia stato dei più facili, il muro dell’incompatibilità dei punitive damages con l’ordine pubblico e, soprattutto, quello dell’inconciliabilità della responsabilità civile con l’idea di polifunzionalità è crollato; dando luce alla vera natura dell’istituto aquiliano, che finalmente potrà svolgere a pieno il proprio compito di tutela delle vittime di illeciti intenzionali o derivanti da colpa grave degli autori e dissuadere efficacemente questi ultimi dal ripeterli, oltre che scoraggiare i potenziali danneggianti dal mettere in atto condotte dannose.
[1] In tal senso anche P.G. MONATERI, La responsabilità civile, in Trattato di diritto civile: le fonti delle obbligazioni, diretto da R. SACCO, Vol. III, Torino, Utet, 1998, p. 19-21.
[2] Cfr. Cass., 19 gennaio 2007, n. 1183, in Foro it., 2007, I, c. 1460, con nota di G. PONZANELLI, Danni punitivi: no grazie; in Danno e resp., 2007, pp. 1125ss, con nota di R. PARDOLESI, Danni punitivi all’indice; in Corr. giur., 2007, pp. 497ss;
[3] App. Venezia, 15 ottobre 2001, in Nuova giur. civ. comm., 2002, pp. 765 ss.;
[4] Cass., 8 febbraio 2012, n. 1781, in Foro it., 2012, c. 1449ss; in Danno e resp., 2012, pp. 609ss, con nota di G. PONZANELLI, La Cassazione bloccata dalla paura di un risarcimento non riparatorio; in Corr. Giur., 2012, 1068 ss., con nota di R. PARDOLESI, La cassazione, i danni punitivi e la natura polifunzionale della responsabilità civile: il triangolo no!;
[5] P.G. MONATERI, G.M.D. ARNONE, N. CALCAGNO, op. cit., 2014, p. 51: inoltre gli A. osservano che la Corte d’Appello “ha molto intelligentemente riconosciuto la validità della sentenza straniera, legittimandone la condanna ultra-compensativa e non riparatoria evitando di scendere in discorsi di nomenclatura ed etichettatura che avrebbero generato maggiori problematicità per il giudizio di delibazione”;
[6] sul punto cfr. ordinanza di rimessione n. 9978 del 2016;
[7] Cfr. Cass., Sez. III, del 20 aprile 2016, n. 7766, in Danno e resp., 2016, p.725;
[8] Sul punto v. P.G. MONATERI, La fenomenologia del danno non patrimoniale, in Danno e resp., 2016, pp. 720ss: l’A. osserva che tale passaggio risulta essere importante poiché riporta alla vittimologia, ossia lo studio su ciò che accade alla vittima del danno, affermando che “è questo accadere che l’ordinamento impone di considerare nel determinare l’oggetto dell’obbligazione risarcitoria”; usando le parole della Corte “è in questa realtà naturalistica che si cela la risposta (e la conseguente, corretta costruzione di categorie che non cancellino la fenomenologia del danno alla persona attraverso sterili formalismi unificanti) all’interrogativo circa la reale natura e la vera, costante essenza del danno alla persona: la sofferenza interiore e le dinamiche relazionali di una vita che cambia”;
[9] Cass., Sez. III, del 20 aprile 2016, n. 7766, cit.: “l’aumento personalizzato del danno biologico è circoscritto agli aspetti dinamico relazionali della vita del soggetto in relazione alle allegazioni e alle prove specificamente addotte, del tutto a prescindere dalla considerazione (e della risarcibilità) del danno morale. Senza che ciò costituisca alcuna “duplicazione risarcitoria”. In altri termini, se le tabelle del danno biologico offrono indici standard di liquidazione, l’eventuale aumento percentuale sino al 30% sarà funzione della dimostrata peculiarità del caso concreto in relazione al vulnus arrecato alla vita di relazione del soggetto” “altra e diversa indagine andrà compiuta in relazione alla patita sofferenza interiore. Senza che alcun automatismo risarcitorio sia peraltro predicabile”
[10] La valorizzazione dell’aspetto equitativo e la possibilità del superamento dei limiti tabellari o meglio l’abbandono delle stesse non unanimemente condivisa dalla dottrina; sul punto in senso favorevole v. P.G MONATERI, op. cit., 2016, Danno e resp.,pp. 720ss, contra G. PONZANELLI, Postfazione a Monateri, Danno e resp, pp. 728ss;
[11] Cfr. Trib. Torino, 3 giugno 2015, n. 4007, in Danno e resp., 2015, p. 723 ss: il caso riguardava uno studente diciassettenne, del Liceo scientifico Darwin di Rivoli, che nel novembre 2008 decedeva a causa dell’improvviso crollo della controsoffittatura dell’aula realizzata tra 1962 e il 1964, che non fu mai sottoposta a controlli di sicurezza nel corso degli anni. Nel processo penale furono accertate le cause e le dinamiche del cedimento e la responsabilità del funzionario della Provincia di Torino e dei tre RSPP, le cui condanne comminate in appello furono confermate dalla sentenza n.12223 del 2016 della Corte di Cassazione, IV Sez. Penale, che ha ritenuto la posizione di garanzia espressione della solidarietà costituzionalmente dovuta e riconosciuta nei rapporti intersoggettivi la quale impone una tutela rafforzata e privilegiata di determinati beni di primaria importanza per la persona, quali la vita e la salute; sul punto cfr. G.M.D. ARNONE, Il Crollo del liceo Darwin approda in Cassazione, in Danno e resp., 2016, p. 976: l’A. osserva come la Cassazione abbia voluto “dettare importanti moniti circa il non consentire livelli non adeguati di sicurezza, sia che essi siano ricollegabili a trascuratezza, sia che il movente economico si ponga alla base delle scelte, ritenendo ininfluente la non attualità della carica al momento dell’evento dannoso”; inoltre v. G.M.D. ARNONE, Risarcimento del danno ultra tabellare: crollo liceo Darwin di Rivoli”- Trib. Torino, n. 4007/2015, in DannoallaPersona, 2015;
[12] v. P.G. MONATERI, I “danni aggravati dalla condotta” e le “circostanze del caso” di cui all’art. 2056 c.c., in Danno e resp., 2015, 7, p. 742; sul punto cfr. anche Cass., 13 maggio 2011, n. 10527; Cass., 6 aprile 2011, n. 7844; Cass., 20 novembre 2012, n. 20292; Cass., 28 agosto 2013, n. 19402; Cass., 23 gennaio 2014, n. 1361; Cass. 8 maggio 2015, n. 9320;
[13] Sul punto v. P.G. MONATERI, I “danni aggravati dalla condotta” e le “circostanze del caso” di cui all’art. 2056 c.c., in Danno e resp., 2015, 7, p. 742. L’ A. osserva come nel ragionamento adottato “il Tribunale nota che la gravità del fatto non è priva di rilievo per le modalità e il contesto in cui si è verificato, nella misura in cui le peculiarità dell’evento lesivo si riverberano sul danno effettivamente subito, pur sempre in un’ottica riparatoria o compensativa”;
[14] Ibidem, p.743: l’A., in merito all’argomentazione del Tribunale, afferma che: “vi è da osservarla nella sua lucidità di dato giurisprudenziale in quanto essa comporta evidentemente una considerazione dei danni aggravati dalla condotta”; Infine, osservando che i valori delle tabelle “non possono per loro natura tenere conto della gravità non ordinaria delle circostanze e delle condotte di determinati casi, ma queste circostanze non ordinarie sono proprio quelle che il legislatore impone al giudice di considerare giusta il dettato dell’art. 2056 c.c.”; inoltre, sostiene che è “più conforme allo spirito del Codice non avere tabelle e procedere in via qualitativa. Nondimeno siccome tali tabelle esistono, e ad esse viene data rilevanza, allora pare chiaro che per tenere dietro alle esigenze delle circostanze del caso si debba di necessità adottare un moltiplicatore” a seconda del grado di colpevolezza del danneggiante;
[15] ex multis: art. 12 l. 47/1948 che prevede una aggiuntiva a titolo di risarcimento nel caso di diffamazione a mezzo stampa; l’art. 18 ultimo comma l. 300/1970 (c.d. Statuto dei lavoratori) e art. 28 comma 2 del d.lgs 81/2015; l. 349/1986, che disciplina il risarcimento in materia danno ambientale; l’art. 125 c.p.i., concernente il risarcimento del danno e la restituzione dei profitti illeciti; l’art. 96 comma 3 c.p.c., relativo alla responsabilità aggravata da lite temeraria; l’art. 614 bis c.p.c., concernente la figura delle astreintes; l’art. 709 ter c.p.c. in materia di famiglia; e da ultimo gli art. 3-5 del d.lgs. 7/2016 (decreto di depenalizzazione che ha trasformato in illeciti civili varie fattispecie di reato a tutela della fede pubblica, dell’onore e del patrimonio) che ha affiancato al risarcimento del danno, irrogato in favore della parte lesa, una sanzione civile pecuniaria in caso di illeciti dolosi;
[16] P.G. MONATERI, G.M.D. ARNONE, N. CALCAGNO, op. cit. p. 55;
[17] P.G. MONATERI, op. cit., 1998, p. 20ss:
[18]P.G. MONATERI, G.M.D. ARNONE, N. CALCAGNO, op. cit. p. 122;
[19] E. J. WEINRIB, Restitutionay Damages as Corrective Justice, 1 Theroretical Inq. L. 1, 2000; E. J. WEINRIB, Deterrence and Corrective Justice, in 50 UCLA L. Rev. 621, 2000; inoltre, sulla funzione organizzativa cfr. P.G. MONATERI, op. cit., 1998, p. 22;
[20] Sul punto v. P.G. MONATERI, G.M.D. ARNONE, N. CALCAGNO, op. cit. 2014, p. 77, Gli A. evidenziano come tale criterio sia stato utilizzato in alcune ipotesi anche dalla giurisprudenza; cfr. Cass., 11 maggio 2010, n. 11353, in Foro it, I, 2011, c. 540, con nota di P. PARDOLESI, Abuso sfruttamento d’immagine e danni punitvi: L’ A. osserva che in questo caso la condanna è in un ottica sanzionatoria – punitiva; infatti la Corte ha provveduto a comminare una condanna per lo sfruttamento dell’immagine di un giovane ballerino con la retroversione degli “utili presumibilmente conseguiti dall’autore dell’illecito”;
[21] cfr. Corte Cost. 16 ottobre 2014, n. 235, in Foro it., 2014, I, c. 3345;
[22] Infatti è stato osservato, G.M.D. ARNONE, Umanità e tecnica nel risarcimento del danno alla persona, in Danno e resp., 2011, pp.963ss, che “equità non vuol dire soltanto parità di trattamento ma pure ‘regola del caso concreto’ ed è per tali motivi che essa diviene un vero e proprio meccanismo di check & balances attraverso il quale: a) controbilanciare la tendenza uniformante che emerge dalle tabelle; b) controllare la congruità dei risarcimenti riguardo alle particolarità del caso concreto, valorizzando quindi il precetto di cui all’art 3 Cost. e consentendo di trattare i casi dissimili in modo dissimile e casi analoghi in modo in modo analogo, in quanto tutti ricadenti sotto la disciplina della medesima norma o dello stesso principio, configurandosi pertanto come: a) un principio di salvaguardia rispetto alle liquidazioni che apparirebbero troppo riduttive ( e quindi non integrali) nonché b) una regola di controllo sull’operato del giudice” sul punto cfr. anche P.G. MONATERI, G.M.D. ARNONE, N. CALCAGNO, op. cit. 2014,;
[23] A tal proposito si osserva che nei casi di danno morale o esistenziale gli automatismi in percentuale, ad es. a un danno biologico di lieve entità, non risultano adeguati potendo essere l’entità di tali pregiudizi ben maggiori in caso di illeciti gravemente colposi o dolosi; sul punto v. P. CENDON – G.M.D ARNONE, Il danno aggravato dalla condotta, in Persone e danno, 23 luglio 2014: gli A., con riferimento al sistema c.d. “biocentrico”, osservano che “le categorie (o voci) prevalgono sulle tabelle. L’equità prevale sulle tabelle (…) È chiaro quindi che le tabelle non hanno nulla da dire con riferimento alla componente morale – ed esistenziale – immediatamente correlata, non alla lesione fisica, ma alla lesione di altra prerogativa, come la dignità che certo è suscettibile di maggior intrusione e danneggiamento ove violata dall’illecito intenzionale o gravemente colposo. Va però subito evidenziato come il risarcimento, ancorché integrale, sconta forti limiti nell’area degli illeciti intenzionali ove l’unico elemento in grado di disincentivare comportamenti dolosi e l’ottimale gestione della deterrenza”; v. anche P.CENDON – G.M.D. ARNONE, La responsabilità civile e punitiva, Cendon Libri, 2013;
[24] Cfr. Trib. Torino, 3 giugno 2015, n. 4007, in Danno e resp., 2015, p .723;
[25] P.G. MONATERI, G.M.D. ARNONE, N. CALCAGNO, op. cit., 2014, p. 75;
[26] P.G. MONATERI, G.M.D. ARNONE, N. CALCAGNO, op. cit., 2014, p. 79
[27] Sul punto v. F. BRICOLA, La ricoperta delle pene private nell’ottica del penalista, in Politica del diritto, 1985 pp 71ss; P. CENDON, op. cit., 1979, p. 150;
[28] cfr. M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, III ed., Palermo, Palumbo, 2006, pp. 509;
[29]Sul punto v. P. CENDON, op. cit., 1976, pp. 10 ss. “Nessun peso eserciterebbe (…) il fatto che il comportamento dannoso sia stato intenzionale, oppure soltanto negligente”; P.G. MONATERI, G.M.D. ARNONE, N. CALCAGNO, op. cit., 2014, p. 3 “ l’inserimento nell’art. 2043 c.c. della particella “o” sembra alludere all’intera categoria degli atti illeciti, compiuti intenzionalmente oppure senza intenzione. Ciò ha portato a considerare il dolo come completamento della colpa”
[30] In questo senso già P. CENDON, op. cit., p. 21: “Basta distogliere però lo sguardo dalle enunciazioni correnti, e volgerlo però con più attenzione verso il materiale legislativo e giurisprudenziale, per constatare come accanto alle molte conferme che il principio riceve – là dove la presenza del dolo non modifica effettivamente in nulla, rispetto alla colpa, l’esito e il contenuto del giudizio di responsabilità – non manchino nel nostro sistema casi in cui esso si trova ad essere disapplicato o smentito: e ciò, sia sul fianco dell’ an respondeatur, data l’esistenza di situazioni in cui l’obbligo riparatorio è previsto o viene ammesso comunque soltanto dinnanzi al dolo, alla malafede o alla colpa grave dell’agente, e non invece nell’ipotesi della culpa levis; sia su quello del quantum respondeatur, per la necessità o per l’opportunità – che talvolta si presenta – di far gravare sull’autore doloso della lesione certe conseguenze dannose del suo comportamento, di cui egli non risponderebbe se avesse agito per mera negligenza, e che determinano quindi un aumento del carico finale che gli viene complessivamente addossato”.
[31] v. nota 15;
[32]Sul punto cfr. P.G. MONATERI, G.M.D. ARNONE, N. CALCAGNO, op. cit. p. 29;