
Nota a Sentenza Cass. pen. 34466/15 – Annalisa GASPARRE
La persona che, per mezzo del suo avvocato, ha invocato la non imputabilità era riconosciuta colpevole dell’omicidio di tre persone avvenuto in modo molto violento (due uccise a fucilate, una a coltellate).
Consolidata è l’applicazione delle norme rilevanti da parte della giurisprudenza: la malattia mentale rilevante per escludere o ridurre l’imputabilità è quella che dipende da un serio stato patologico che comporti una degenerazione della sfera intellettiva o volitiva dell’agente. In mancanza di patologie cliniche, i disturbi della personalità rilevano solo se «sono in grado di influire sulla capacità di intendere e volere solo quando intervengono con un nesso eziologico nella condotta criminosa».
L’apertura, relativamente recente, alla rilevanza dei disturbi della personalità, o di ogni altro disturbo mentale, è temperata dalla precisazione che tali disturbi sono in grado di influire sulla capacità di intendere e volere solo quando intervengono con un nesso eziologico nella condotta criminosa, per effetto dei quali il reato viene ritenuto causalmente determinato proprio dal disturbo mentale: deve trattarsi di turbe di tale consistenza e gravità da determinare una situazione psichica che impedisca al soggetto di gestire le proprie azioni e faccia sì che non ne percepisca il disvalore oppure di impulsi all’azione, pur riconosciuta come riprovevole, che siano tali da vanificare la capacità di apprezzarne le conseguenze.
L’infermità di cui parla l’art. 88 c.p. è dunque non più limitata alle categorie di inquadramento nosografico tradizionale (schizofrenia, paranoia, depressione maggiore), ma esteso ai disturbi di personalità, nel caso in cui il delitto sia stato influenzato in modo diretto ed immediato da quel particolare disturbo.
In definitiva, mancando uno patologia nosografica e sussistendo un disturbo di personalità, occorre in primo luogo accertare che il disturbo sia così intenso (“di rilevante entità”) da condizionare chi ne è affetto, tanto da ridurlo a vittima incapace di rendersi conto delle proprie azioni. In secondo luogo, occorre verificare il nesso eziologico, cioè se l’azione non si sarebbe compiuta in assenza del disturbo mentale (se l’azione è condizionata dal disturbo).
Nel caso esaminato, i giudici ritengono il disturbo dell’adattamento patito dall’imputato ininfluente rispetto alla lucidità con cui freddava le sue vittime. Per il perito, infatti, la diagnosi era di disturbo dell’adattamento quale modo di essere della persona e quale reazione individuale agli eventi e ai fattori psico-sociali stressanti. Era infatti da escludere che l’uomo fosse affetto da un disturbo bipolare, cioè una sindrome “maniaco-depressiva caratterizzata da gravi alterazioni dell’umore, e quindi delle emozioni, dei pensieri e dei comportamenti, costituente una infermità mentale in senso patologico come tale incidente sull’imputabilità”.
Nel caso in esame, per i giudici, il disturbo dell’adattamento non può costituire sintomo di mancante o ridotta capacità di intendere e di volere, specie riguardo ai delitti commessi che sottintendono un grado di illiceità percepibile da chiunque. Inoltre, i giudici – sul piano fenomenologico – evidenziano come le modalità con cui si sono svolti i fatti depongono per una programmata aggressione per eliminare coloro che volevano estromettere l’imputato dall’azienda e non una reazione da “corto circuito”.