Secondo la giurisprudenza di legittimità (cfr le quattro sentenze gemelle Cass. Sezioni Unite N° 12564 e ss del 2018) non parevano sussistere dubbi all’interrogativo posto nel titolo del presente articolo: il danneggiato da una condotta illecita di terzi non poteva cumulare l’indennizzo percepito dalla propria polizza infortuni con il risarcimento del danno a carico del responsabile.
Per fare un esempio laddove a seguito di un investimento pedonale un soggetto avesse riportato lesioni risarcibili con 100.000€, ma godesse di una propria polizza infortuni private che gliene avesse liquidati 50.000€, tale ultimo importo avrebbe dovuto essere scomputato dal risarcimento richiedibile all’assicurazione del veicolo investitore.
A tale conclusione la Suprema Corte è giunta sostanzialmente al fine di evitare, da un lato, un ingiusto guadagno del danneggiato e, dall’altro un eccesso, di oneri a carico del responsabile.
Per quanto riguarda il primo punto i Giudici di Piazza Cavour rilevano che laddove il danneggiato potesse cumulare risarcimento ed indennizzo da polizza infortuni, si troverebbe, sempre nell’esempio sopra svolto, a percepire 150.000€, a fronte di un danno stimato in 100.000€ e quindi con un “guadagno” di 50.000€.
Per quanto riguarda invece la posizione del responsabile, gli Ermellini pongono in rilievo che, ai sensi dell’art. 1916 c.c., l’assicuratore che paga l’indennizzo ha il diritto di rivalersi per il medesimo importo sul responsabile con la conseguenza che, laddove il cumulo fosse consentito, quest’ultimo si troverebbe a dover corrispondere sia il risarcimento al danneggiato, sia l’indennizzo all’assicuratore, e quindi una somma maggiore del danno effettivamente arrecato.
Sin da subito tale decisione aveva destato molte perplessità, perché, come già sostenuto dall’autore del presente articolo in un Convegno tenutosi a Pisa pochi mesi dopo le decisioni della Cassazione del 2018, comportava una reale stravolgimento della volontà contrattuale delle parti al momento della sottoscrizione della polizza infortuni, nonché un ingiusto profitto per il responsabile del danno che si sarebbe trovato a godere di una diminuzione del danno da risarcire a fronte di un premio pagato dal danneggiato.
La Suprema Corte, invece, aveva affermato espressamente che lo scopo che si prefiggeva il sottoscrittore della polizza fosse, in estrema solo quello di garantirsi un importo indennitario con funzione sostanzialmente risarcitoria (quindi di ristorare il danno) e che la rinuncia alla cessione da parte dell’assicuratore fosse un mero accidente privo di rilevanza.
Tale tesi ha trovato finalmente oggi un fiero oppositore nel Tribunale di Milano che con la sentenza 2894 dell’11.04.2023 ha avuto il coraggio e la sagacia tecnico-giuridica di evidenziare come l’impostazione della Cassazione non potesse essere condivisibile.
In tale sentenza infatti viene evidenziato come la Suprema Corte abbia errato nel ritenere tout court equiparabile una polizza infortuni ad una polizza contro i danni (e quindi all’applicazione dell’art. 1916 c.c.) che nel nostro ordinamento erano state previste e congeniate esclusivamente per i danni a cose (quindi con riferimento al danno patrimoniale) non certo per il danno alla persona (e quindi al danno non patrimoniale) che all’epoca di redazione del nostro codice non esisteva nemmeno.
Inoltre correttamente il Tribunale rileva che non possa condividersi assolutamente la tesi della Suprema Corte (che a chi scrive pare a dir poco azzardata e totalmente avulsa dalla realtà socio-economica) dello scopo della polizza infortuni quale strumento di certezza dell’ottenimento di una posta risarcitoria sotto forma di un indennizzo previamente concordato.
Tale tesi si scontra contro alcune considerazioni la cui prima, e più evidente, è che l’indennizzo viene stabilito tra assicurato ed assicuratore ed il suo importo è legato al premio: come noto infatti il contraente della polizza infortuni può legittimamente convenire un indennizzo di € 10.000 a punto di IP che comporterebbe il riconoscimento di una somma sicuramente maggiore rispetto a quella ottenibile a titolo di danno non patrimoniale in ambito di responsabilità civile.
Orbene è di tutta evidenza che allorquando si sottoscrive una polizza del genere, lo scopo pratico che si prefigge l’assicurato non è quello di garantirsi solo il risarcimento del danno, ma quello di ottenere una maggior provvista a titolo di previdenza per la grave situazione psicofisica nella quale si verrà a creare: solo per tale motivo è disponibile a versare ripetutamente sostanziosi premi all’assicuratore!
Inoltre nessuno può seriamente ritenere che un assicurato paghi un premio anche cospicuo, sapendo che la somma che gli verrà riconosciuta andrà a vantaggio di colui che gli ha arrecato quel danno fisico (o alla sua assicurazione), sgravandolo di una parte del risarcimento del danno arrecato.
Ciò poi risulta maggiormente inverosimile in questo periodo storico in cui le polizze per la responsabilità civile terzi (ovvero quelle che sottoscrive il responsabile perché l’assicuratore paghi il danno al suo posto) si stanno diffondendo sempre di più divenendo addirittura obbligatorie in moltissimi campi come per le attività sanitarie e le attività sportive, che unitamente alla circolazione dei veicoli compongono la stragrande maggioranza degli ambiti in cui vengono arrecate, colposamente, le lesioni fisiche.
Quando un soggetto sottoscrive la polizza infortuni è infatti per garantirsi di ottenere un determinato capitale in aggiunta a quanto potrebbe eventualmente incassare dal responsabile civile, laddove questo esistente (la polizza infortuni infatti opera anche in caso di danni autocagionatisi colposamente).
Ciò si desume chiaramente da una semplice e banale considerazione: chi sottoscrive la polizza infortuni, pagando i relativi premi, lo fa per averne egli un vantaggio economico, ma non certo per alleggerire la posizione debitoria di chi il danno glielo ha arrecato!
Correttamente quindi, a parere di chi scrive, il Tribunale di Milano afferma che la causa concreta per la quale un assicurato stipula una polizza una polizza infortuni è quella di garantirsi, con scopi puramente previdenziali, un importo ulteriore rispetto a quanto potrebbe eventualmente ottenere dal responsabile del danno e che pertanto l’indennizzo possa cumularsi con il risarcimento.
Il Tribunale di Milano però pone una imprescindibile (e condivisibile) condizione affinché ciò possa avvenire: deve essere necessariamente prevista nella polizza infortuni la rinuncia dell’assicuratore alla rivalsa nei confronti del responsabile civile.
Ciò per due ordini di motivi.
In primo luogo tale clausola evita che il responsabile debba risarcire una somma più alta del danno realmente arrecato: egli dovrà infatti rispondere matrimonialmente esclusivamente del danno nella misura in cui l’ha arrecato, senza essere esposto al doppio pagamento del risarcimento al danneggiato e dell’indennizzo all’assicuratore della polizza infortuni.
In secondo luogo è un ulteriore sintomo (diremmo la prova schiacciante) dello scopo previdenziale di tale contratto assicurativo condiviso da entrambi i contraenti palesando la volontà del sottoscrittore della polizza infortuni di mantenere la possibilità di esercitare l’azione risarcitoria nei confronti del responsabile sottraendo all’assicuratore, che espressamente accetta contrattualmente di rinunciarvi, la possibilità di rivalersi nei confronti del responsabile.
A questo punto non resta da vedere che succederà, nell’auspicio che la condivisibile posizione espressa dal Tribunale di Milano con la sentenza 2894/2023, venga recepita dai Giudici di merito e porti ad una revisione del restrittivo e, ci sia consentito, “balzano” orientamento della Cassazione che consenta per il danneggiato il cumulo del risarcimento con l’indennizzo da polizza infortuni.
Comments are closed