di Erika Finale

La giurisprudenza, anche recentemente, si è più volte occupata delle conseguenze dell’omessa e/o ritardata diagnosi in ambito oncologico, in particolare indagando l’eventuale responsabilità del sanitario a fronte di una omessa diagnosi di un tumore, che ha poi cagionato un’estensione della patologia la quale ha comportato un iter terapeutico che si sarebbe invece potuto evitare in caso di tempestivo accertamento diagnostico.

Secondo un ormai consolidato orientamento, si configura un’ipotesi di responsabilità, allorquando nell’ambito del procedimento venga accertato, a esempio, che una corretta diagnosi avrebbe consentito di intervenire tempestivamente, così evitando il progressivo aumento di dimensioni del tumore.

In tal caso, secondo la Suprema Corte “l’area dei danni risarcibili non si esaurisce nel pregiudizio recato alla integrità fisica del paziente, né nella perdita di “chance” di guarigione, ma include la perdita di un “ventaglio” di opzioni con le quali scegliere come affrontare l’ultimo tratto del proprio percorso di vita”, vale a dire il cd. diritto all’autodeterminazione, che “non richiedere l’assolvimento di alcun ulteriore onere di allegazione argomentativa o probatoria, potendo giustificare una condanna al risarcimento del danno sulla base di una liquidazione equitativa (Cass. n. 7260/2018).” [ex multis, cfr. Cass. civ., Sez. III, Sent., (data ud. 16/04/2021) 12/10/2021, n. 27682]

Orbene: dal momento che il danno da tardiva diagnosi della malattia ad esito infausto non è disciplinato dalle Tabelle di Milano, si dovrà procedere ad una valutazione in via equitativa del caso concreto, prendendo esame molteplici fattori quali a mero titolo esemplificativo e non esaustivo, “in particolare, l’età del paziente al momento della morte […],il periodo di ritardo intercorso fra il primo accertamento diagnostico […], la diagnosi di tumore […] e l’intervenuto decesso […], le condizioni generali di salute del paziente nei mesi intercorsi tra il primo accertamento e l’effettiva corretta diagnosi, come risultanti dalla documentazione medica esaminata dal CTU” [cfr. Cass. civ., Sez. III, Ordinanza, 03/10/2022, n. 28632].

Inoltre, con riferimento ai criteri liquidativi, la giurisprudenza precisa i parametri di riferimento, individuandoli nella “concreta vicenda clinica” e nella “specifica situazione concreta della parte lesa”, senza trascurare “tutti i riflessi sull’integrità psico-biologica”, il “condizionamento” ed il “pregiudizio delle attività areddituali” ed “ogni ulteriore aspetto che concorra a descrivere il danno non patrimoniale (sulla base delle risultanze e delle allegazioni offerte dalla parte)” [ex multis, cfr. Tribunale Milano sez. I, 23/08/2016, (ud. 23/08/2016, dep. 23/08/2016)].

Il Tribunale può così personalizzare il risarcimento riconosciuto al soggetto danneggiato in via equitativa in ragione degli elementi soggettivi appena illustrati, addivenendo in tal modo ad una liquidazione del danno maggiore di quella che si otterrebbe limitandosi invece ad una sterile applicazione delle Tabelle di Milano.

Infine, la giurisprudenza di legittimità è ormai unanime nell’ammettere che <<il risarcimento del danno non patrimoniale può spettare anche ai prossimi congiunti della vittima di lesioni personali invalidanti, “non essendo ostativo il disposto dell’art. 1223 c.c., in quanto anche tale danno trova causa immediata e diretta nel fatto dannoso (Cass., S.U. n. 9556/2002; conformi, ex multis, Cass. n. 8827/2003 e Cass. n. 11001/2003)>> [ex multis Cass. civ., Sez. III, Sent., (data ud. 16/04/2021) 12/10/2021, n. 27682]

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