Il fenomeno delle c.d. baby gang, che affonda le proprie radici nei contesti urbani, consiste nella formazione di bande di minorenni dedite alla criminalità, spesso capeggiate da maggiorenni, i quali esprimono la propria frustrazione e aggressività tramite sistematici atti di violenza e vandalismo.
Si tratta, perlopiù, di giovanissimi capaci d’intendere e volere, ossia perfettamente in grado di comprendere il disvalore sociale delle condotte in tal modo perpetrate.
Non v’è dubbio che il minore “maturo” risponde ai fini privatistici in proprio dei danni cagionati dalla condotta dannosa a scapito dei terzi, ossia delle vittime della baby gang. Il minore-offensore, quindi, è tenuto a risarcire il danno patito dalla vittima dell’azione illecita.
Il problema è che spesso tale minore non dispone di un patrimonio adatto a garantire la soddisfazione della pretesa risarcitoria vantata dalla vittima. Entra allora in gioco la responsabilità genitoriale ai sensi dell’art. 2048 c.c. Tale regola addossa ai genitori, con cui il minore conviva, la responsabilità delle conseguenze dannose degli illeciti commessi dai figli, a meno che i genitori stessi non riescano a provare di non aver potuto impedire l’evento illecito.
Papà e mamma rispondono perché spetta loro adempiere ai doveri di cui agli artt. 30 Cost. e 147 c.c.: tra essi emerge quello di evitare il perpetrarsi di condotte illecite da parte della prole. Il legislatore muove dal presupposto empirico che v’è, di massima, una coerenza logico-causale tra l’illecito del figlio (posterius) e le modalità educative (prius), perché se esse fossero state attuate in modo coscienzioso, il minore non avrebbe perfezionato la condotta disapprovata dall’ordinamento. Si ritiene infatti che competa ai genitori correggere le patologie o devianze comportamentali dei figli, sì da agevolare da parte della prole l’autocoscienza e lo sviluppo di una personalità equilibrata e pienamente integrata nel corpo sociale. Insomma, è dovere dei genitori – si afferma – impartire ai figli un’educazione improntata al rispetto delle regole della convivenza e funzionali alla comprensione del disvalore delle azioni lesive dei terzi.
Come si diceva, la nascita dell’obbligazione risarcitoria in capo ai genitori per l’illecito dei figli è preclusa dalla prova di «non aver potuto impedire il fatto» (art. 2048, comma 3°, c.c.)., da intendersi – secondo l’orientamento prevalente – come prova di aver impartito al minore tutte le direttive educative utili a prevenire efficacemente il rischio di sinistri, in quanto strumentali al rispetto del pacifico convivere. Insomma, il genitore è tenuto a provare di aver dato al danneggiante un’educazione adeguata e di aver su di lui vigilato secondo le regole del buon precettore. Occorre provare (trattasi di un fatto positivo) di aver educato il giovane in maniera tale che questi impari a uniformare la propria condotta e, in generale, le relazioni sociali di vita, al canone informato al rispetto dei terzi. Cosicché, la prova negativa di non aver potuto impedire l’evento si converte magicamente – tramite il procedimento di creazione pretoriana di diritto non scritto – in prova positiva di aver fatto tutto quanto il possibile per impedirlo.
I tribunali tendono a dare prevalenza alla colpa genitoriale in educando rispetto a quella in vigilando. Il giudizio di responsabilità viene dunque a fondarsi non già sulla mancata prova dell’inevitabilità del fatto, bensì sulla non adeguata educazione. Tale valutazione d’inadeguatezza – importa bene considerare – è desunta dallo stesso accadimento dannoso. Si assiste così all’emersione di una sorta di ragionamento circolare, che manda in cortocircuito la concreta operatività della prova liberatoria.
Calati questi rilievi nell’àmbito delle baby gang, pare evidente che l’assenza di una corretta educazione, secondo l’interpretazione che precede, possa affiorare in modo lampante dall’appartenenza del minore al “branco di ragazzacci”.
Senonché, tale sillogismo sembra provare troppo. Più correttamente, esso può essere accolto ove i disvalori sociali derivino dalla diseducazione genitoriale. Quando il disagio sociale sia invece radicato nella famiglia, e quando i genitori siano i primi attori di tale stortura socio-comportamentale, allora la responsabilità civile per il fatto dei figli trae le proprie scaturigini dal cattivo esempio dei genitori stessi. Le cose variano quando i genitori abbiano impartito un’educazione corretta ai figli, i quali, ciò nonostante, si siano deliberatamente determinati a camminare lungo il degenerato solco della deriva teppistica, esaltata come fede dalla baby-gang. In casi del genere o si ritiene, ma tale argomentazione non pare accoglibile perché irragionevole e contraria alla ragion d’essere dell’art. 2048 c.c., che i genitori rispondano perché la prova della cattiva educazione è automaticamente offerta dall’adesione del minore al gruppo di giovani teppisti, oppure si deve escludere la responsabilità ai sensi dell’art. 2048 c.c. quando i genitori dimostrino al giudice civile che le storture comportamentali del minore non siano ascrivibili a una non adatta educazione.
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