I minimi tabellari previsti dalla contrattazione collettiva sono assistiti da una presunzione semplice (c.d. iuris tantum) circa la loro adeguatezza al principio di equità della retribuzione, sancito dall’art. 36 Cost., sicché, il giudice, con adeguata e prudente motivazione, può valutare se un salario, formalmente aderente ai minimi tabellari previsti dalla contrattazione collettiva, sia altresì idoneo a garantire al lavoratore percipiente un’esistenza dignitosa oltre che non povera.
Così ha deciso la Corte di Cassazione con due sentenze sorelle: le n. 28320 e 28321 del 10 ottobre 2023.
Salari insufficienti a garantire una vita dignitosa
La questione sottoposta alla Corte di Cassazione trae origine da due vicende analoghe. Alcuni lavoratori, con mansioni di portieri e guardiani di notte, dipendenti di aziende diverse, lamentavano di ricevere retribuzioni il cui valore si collocava sotto la soglia di povertà.
Le retribuzioni contestate erano pacificamente conformi ai dettati dei CCNL applicabili, pertanto occorreva verificare se l’aderenza ai minimi tabellari facesse scattare una presunzione di adeguatezza del salario ex art. 36 Cost. e, se sì, in che termini.
In entrambi i casi i giudici di merito, comparando le retribuzioni effettivamente percepite con quelle previste dai contratti collettivi astrattamente applicabili ai casi di specie, rilevavano differenze salariali significative e, quindi, accertavano l’inadeguatezza dei salari contestati, riportandoli ad equità, ossia, condannando i datori di lavoro a pagare le differenze retributive di volta in volta rilevate.
I minimi tabellari e la presunzione (relativa) di conformità costituzionale
La Corte di Cassazione con un pregevole sforzo argomentativo chiarisce che i minimi tabellari sono assistiti da una presunzione relativa di adeguatezza retributiva che opera non solo «in mancanza di una regola collettiva» ma altresì «nonostante la regola collettiva», sicché l’equità del minimo tabellare può essere valutata in concreto dal giudice. Ciò è a maggior ragione evidente se si considera che non esiste una riserva normativa o contrattuale a favore della contrattazione collettiva nella determinazione del salario.
Pertanto, ove la retribuzione – si badi – netta risulti insufficiente a garantire un’esistenza libera e dignitosa o risulti addirittura inferiore alla soglia minima di sufficienza, essa è da considerarsi nulla e, in applicazione del principio di conservazione ex art. 1419 comma 2, c.c., il giudice la deve adeguare esercitando il proprio potere discrezionale “con massima prudenza e adeguata motivazione”.
La valutazione del giudice
Appurata la sindacabilità dei minimi tabellari previsti dai CCNL e prendendo le mosse dalla recentissima direttiva UE 2022/2041 sui “salari minimi adeguati in UE”, la Corte di Cassazione indica come si debba svolgere la verifica – di merito – sull’adeguatezza retributiva.
In primo luogo, il giudice deve considerare la retribuzione netta percepita e non quella lorda, poiché il tenore di vita dignitoso è garantito dal quantum effettivamente spendibile dal lavoratore.
In secondo luogo, il giudice può comparare tale retribuzione netta con le retribuzioni nette previste per identiche mansioni in CCNL diversi ma astrattamente applicabili alla fattispecie; ciò per verificare che non vi siano significative differenze per posizioni analoghe.
Successivamente, il giudice deve comparare la retribuzione netta con la soglia di povertà calcolata dall’ISTAT e con le diverse forme di sostegno al reddito (ad esempio, NAPSI, CIG, soglia di reddito per l’accesso alla pensione di inabilità, importo del reddito di cittadinanza) considerando però che dette forme di sostegno garantiscono al percettore una mera sopravvivenza, ma non sono idonee a sostenere il giudizio di sufficienza e di proporzionalità richiesto dall’art. 36 Cost. Per dirsi equa, infatti, una retribuzione non solo deve garantire la sopravvivenza ma deve altresì consentire un tenore di vita dignitoso ossia permettere al lavoratore di partecipare alla vita sociale e culturale del proprio Paese.
Infine, ma non da ultimo, nella valutazione di adeguatezza retributiva il giudice deve prendere in considerazione gli indicatori comunemente impiegati a livello internazionale (primo fra tutti dal CEDS) e recentemente cristallizzati all’art. 5 della Direttiva UE 2022/2041, ossia, in estrema sintesi, il rapporto tra il salario minimo lordo e il salario lordo mediano.
Le sentenze in commento hanno l’innegabile pregio di orientare il dibattito sull’equa retribuzione e sul salario minimo chiarendo i confini della valutazione in sede giudiziale.
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