di Angela Prino
Durante l’anno che sta volgendo al termine, la Suprema Corte è tornata a decidere su questioni giuridiche di rilevante interesse, in particolare dal punto di vista della parte danneggiata, per ribadire e consolidare alcuni principi che purtroppo ancora di frequente vengono disattesi dalle Corti di merito.
Prescrizione.
Partiamo dalla più recente: con ordinanza del 27 ottobre 2023, n. 29859, la III Sezione, la Corte, a fronte delle pronunce di rigetto rese da Tribunale e Corte d’appello, in materia di decesso conseguente a responsabilità medica, ribadisce che quando l’illecito civile sia considerato dalla legge come reato e nonostante il giudizio penale non sia stato promosso, ancorché per difetto di querela, nell’azione civile di risarcimento opera, (ex art. 2947, comma 3, cc), l’eventuale più lunga prescrizione prevista per il reato, a condizione che il giudice civile accerti, incidenter tantum, con gli strumenti probatori e i criteri propri del relativo processo, la sussistenza di una fattispecie che integri gli estremi di un fatto-reato nei suoi elementi costitutivi. Tale principio già consolidato e cristallizzato con la pronuncia a Sezioni Unite, la n. 27337/2008, e più recentemente, n. 21404/2021, in tema di domanda risarcitoria esercitata dai congiunti in ambito di responsabilità medica assume una rilevanza particolare in quanto com’è noto l’azione jure proprio, non godendo della copertura contrattuale, si prescrive nel termine quinquennale.
Quindi se, come nel caso delibato dalla Suprema Corte, non si ravvisano gli estremi di un danno da perdita di chances, o catastrofale/terminale, trasmissibile jure successionis, agli eredi, questi ultimi potrebbero vedersi negare il risarcimento del danno da lesione parentale. Ci ricordano invece gli Ermellini, che, anche d’ufficio, il Magistrato dovrà applicare la prescrizione più lunga stabilita dal Codice Penale per il reato astrattamente configurabile, nella specie dunque, trattandosi di omicidio colposo, quella decennale.
Spese mediche.
La Sezione III della Corte di cassazione, con sentenza del 23 ottobre 2023, n. 29308, ritorna sulla vexata quaestio della risarcibilità delle spese mediche sostenute dal danneggiato al di fuori delle strutture del SSN, fissando il seguente principio di diritto: «la scelta di chi abbia subito danni alla persona di rivolgersi a una struttura sanitaria privata , in luogo di quella pubblica, non può automaticamente essere considerata – in relazione alla domanda di rimborso delle relative spese mediche – ragione di applicazione a carico del danneggiato dell’art. 1227, secondo comma, c.c.». La decisione della Suprema Corte, in realtà va contestualizzata a livello europeo, ove si è osservato già da tempo, che è in contrasto con la libera circolazione dei servizi una normativa interna che esclude, in modo assoluto dal rimborso delle spese sanitarie, i pazienti che si recano in un altro Stato membro per ottenere cure mediche. La previsione di una disciplina interna, che fissa un’esclusione assoluta dalla possibilità di ottenere un rimborso, è sproporzionata ai sensi del trattato delle Comunità europee (Corte giustizia UE sez. II, 19/04/2007, n.444).
A prescindere dalla ratio e dalle finalità sottese all’orientamento in esame, da un punto di vista pragmatico a tutte quelle eccezioni che liquidatori, medici legali, sia di parte che d’ufficio, nonché Tribunali di merito frappongono al riconoscimento di spese mediche, che seppur necessarie e congrue, sono state effettuate presso strutture private, ad esempio perché quelle pubbliche obbligano a tempi di attesa a volte addirittura incompatibili con la finalità e l’efficacia stessa della prestazione, sarà certamente opponibile la sentenza in commento, ed il principio tanto banale quanto fondamentale, per cui al giorno d’oggi in Italia, non si può stimmatizzare il ricorso a strutture private per sopperire a carenze o difficoltà del SSN e perseguire la migliore tutela e cura della salute.
Interessi ex art. 1284 IV comma CC.
Ad inizio anno la Suprema Corte ha messo fine ad un dibattito giurisprudenziale e dottrinario circa l’estensione dell’applicazione della detta disposizione anche alle obbligazioni restitutorie o risarcitorie derivanti da inadempimento contrattuale o fatto illecito. Sin dall’introduzione della norma, infatti (nel 2014), si è posta la questione dell’ambito oggettivo di operatività del tasso “maggiorato” di interessi legali introdotto dal comma 4 dell’art. 1284 c.c. Una prima indicazione, in proposito, è stata fornita dalla pronuncia di Cass. II, 07/11/2018, n. 28409, la quale – muovendo dalla formulazione letterale della norma ha ritenuto che la disciplina ivi prevista possa trovare applicazione solo con riguardo alle “obbligazioni pecuniarie di natura contrattuale”.
Il Tribunale di Savona (sentenza depositata il 25/09/2020), ha lanciato il primo sasso nello stagno, reputando il saggio in questione applicabile anche alle obbligazioni restitutorie e risarcitorie derivanti da inadempimento contrattuale, benché le medesime possano integrare un debito di valore (almeno quelle risarcitorie) e non essere liquide (cioè determinate nel loro ammontare).
A seguito dell’ordinanza interlocutoria di Cass. VI, 20/04/2022, n. 12581, che ha ritenuto la questione di elevata importanza nomofilattica e che su di essa non si sia consolidato un univoco orientamento di legittimità, (fatte salve due pronunce della terza Sezione n. 28409/2018 e n. 7966/2020), si è pronunciata, con ordinanza del 3 gennaio 2023, (n. 61), la III Sezione della Suprema Corte consacrando l’orientamento che ritiene legittima l’estensione della disciplina di cui al IV comma del 1284 cc, a tutte le obbligazioni risarcitorie in quanto “L’art. 1284 c.c., comma 4, è stato introdotto al fine di contenere gli effetti negativi della durata dei processi civili, riducendo il vantaggio, per il debitore convenuto in giudizio, derivante dalla lunga durata del processo, attraverso la previsione di un tasso di interesse più elevato di quello ordinario, dal momento della pendenza della lite: si tratta evidentemente di una disposizione (lato sensu “deflattiva” del contenzioso giudiziario), che ha lo scopo di scoraggiare l’ inadempimento e rendere svantaggioso il ricorso ad inutile litigiosità, scopo che prescinde dalla natura dell’obbligazione dedotta in giudizio e che si pone in identici termini per le obbligazioni derivanti da rapporti contrattuali come per tutte le altre”. Si tratta di una pronuncia dalla portata rivoluzionaria e destabilizzante, (specialmente per il debitore), che si traduce certamente nel riconoscimento a favore della parte debole del contratto, il danneggiato creditore, di uno strumento che può contribuire ad equilibrare i rapporti di forza tra le parti. Da un lato, con le parole degli Ermellini, viene scoraggiata la strategica tendenza alla resistenza in giudizio ed all’effettuazione del dovuto pagamento da parte del debitore, che al contrario avrà interesse ad accelerare i tempi dell’adempimento, pena l’aggravamento del debito, ad un tasso d’interessi attualmente pari al 12%. Dall’altro il creditore che proprio malgrado dovrà subire le conseguenze della lungaggine delle tempistiche processuali, al momento della liquidazione avrà una soddisfazione pecuniaria maggiore rispetto a qualsiasi tipologia di investimento finanziario. In conclusione l’avvocato specializzato in questa materia, nell’interesse del danneggiato, dovrà sconsigliare al cliente la ricerca di una transazione “al ribasso” al solo fine di velocizzare i tempi, mirando ad ottenere una conciliazione o una pronuncia che riconosca l’integrale risarcimento del danno, anche sotto il profilo dell’ingiusta attesa, mediante la corretta applicazione di un tasso di interessi molto superiore a quello legale.
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